Il filo conduttore di questa riflessione è la scelta di guardare ai valdesi e ai valdismi medievali come “comunità”, sulla base della convinzione che la dimensione sociale sia metodologicamente cruciale: siamo di fronte prima di tutto a gruppi di persone accomunate da qualcosa che le distingueva dagli altri, e le portava a interagire tra loro con un fine specifico, per raggiungere il quale il gruppo si organizzava in un modo che lo rendeva qualcosa di più della semplice somma di individui. Sulla base di approcci e metodologie che sono state applicate a campi d’indagine diversi e lontani, si presentano qui alcuni modelli di «comunità» che possono aiutarci a comprendere e descrivere i valdesi medievali, dalle “comunità testuali” alle “comunità di pratica”, dalle “comunità emozionali” a quelle sensoriali.
«Si potrebbe sostenere che alcuni “valdesi” sono per noi definibili come tali semplicemente sulla base del fatto di essere stati accusati di esserlo (cosa sulla quale potevano non concordare), ma così il rischio è di includere individui che non avevano quasi nulla in comune. Un’alternativa è offerta dalla possibilità di concentrarsi sulle pratiche piuttosto che sulle credenze (dato che è sempre difficile ricostruire cosa gli individui effettivamente credessero e pensassero), rilevando per esempio chi aveva partecipato a determinate attività o eventi e come – secondo le fonti – agiva e si comportava. In fondo, la Nobla Leiçon, il più noto tra i testi poetici valdesi medievali, invita il suo pubblico innanzitutto all’osservanza di determinate pratiche: “O fratelli, ascoltate una nobile lezione: dobbiamo spesso vegliare e stare in preghiera”».